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Mario D’Arcangelo e la carit dello sguardo

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SOPRA ALCUNI INEDITI DI MARIO D'ARCANGELO.

L'edizione 2016 del premio nazionale di poesia in dialetto "Vie delle memorie- Vittorio Monaco" ci ha consegnato nel suo vincitore un Mario D'Arcangelo ci verrebbe da dire in stato di grazia ma, in realtà, semplicemente i quattro testi qui presentati ce lo confermano (nella parola dell'area teatino-freantana di Casalincontrada della provincia di Chieti) entro una carità dello sguardo come preservazione dello sguardo stesso, e quindi dello spirito nello spazio delle proprie reciproche, effettive, traducibilità. Mi sembra questa nella traccia di una scrittura religiosamente intrecciata tra sgomento e fede ad affondi ed orizzonti di memoria, come abbiamo avuto già modo di rilevare, il senso di una poetica in cui il verso madre della terra, dell'aia di ascolto prendendo a spunto un suo passaggio, ben si lega teneramente, urgentemente per riconoscimento e per pietas al proprio racconto dignitoso dell'umano. Nei destini di morte e di giovinezza recisa che questi versi ci affidano, la potenza di prossimità, resa dalla vestizione nella parola di un orizzonte di oscurità in cui sono gli oggetti, le cose a connotare con l'uomo- dell'uomo- l'annichilimento e la perdita, è infatti, anche, scenograficamente nella partecipazione attiva del mondo di riferimento in cui quelle e tutte le vite sono comprese. L'uomo è legame, si premura di ricordare e di porre a barriera il verso contro tutto ciò che non permette al singolo, alla comunità di fecondarsi, siano gli amori, le promesse, i ricordi stessi che indirizzano gli uomini al futuro dovuto come in "Le cìtele che n'à nate" ("I bambini che non sono nati") in cui al ritmo della marcia di chi va al massacro, di chi va a perdere il bene d'amore e di grazia che è della vita, sono celebrati, a un secolo dalla grande guerra, i ragazzi del '99. Tutto "‘nfonne a nu sprufonne" ("in fondo a uno sprofondo"), tutto "ncape a lucapecroce d’ognesonne" ("in cima al capocroce di ogni pensiero" ), in altissima resa per dolenza della cadenza che la versione in lingua fatica a rendere e che perdura nelle figure di Teresina dell'omonima poesia e nel ragazzino de "Lu rosce". Qui il poeta sembra cedere coi due ragazzi, nella follia delle loro perdite, l'una per violenza balorda l'altro ancora in conseguenza della guerra, D'Arcangelo stesso nel mutismo dello shock senza nemmeno un "scì e no" (un sì e no) per farsi comprendere. Riuscitissimo strumento nella sempiterna e universale condizione di male e pericolo, nel rapimento di anime nidi, del motivo ricorrente in D'Arcangelo di un passato che al moderno sembra sopravvivere solo nella perpetuazione di modalità di domini e veleni e che è nello specifico al centro dell'interrogazione de "Lu patrone de la passatelle" ("Il padrone della passatella") . Qui il ritorno al luogo caro dell'aia ("all’are de lu ddòsele"- "all'aia dell'ascolto " ) , che va a cucire il dialogo con la madre (in quella parte che tanta importanza ha nella poesia di D'Arcangelo chi non è più) illuminando il cuore di sorpresa per una pace che conforta, è accompagnato comunque nel contrasto dalla presenza buia del sopruso, di chi "n’à perdute lu vizie e lu piacére/de fa’ olme lu sotte" ("di chi non ha perduto il vizio e il piacere/ di mandare a secco il sotto"). Eppure, abilmente, proprio nell'urto di ritorno che "illumina i sentieri e i misteri/ di luci e...chiaroscuri"( c’allume le sentìre e le mestire de luce e...chiarescure") va a rimemorare la terra nel suo luogo di eterna semina e di aspirazione nell'intreccio naturale ma sempre miracoloso di una nascita aperta e libera e nella sua somma di perpetuo battesimo. Soprattutto lo stupore cosciente- e crescente- della parola ("a ècche addò se pò sentì lu cresce/de le ràdeche sotterre- " qui dove si può avvertire il crescere/ delle radici sotterra")- sembra risuonare in consonanza quasi metapoetica diremmo col valore forse primario della poesia nella stretta dialettica che è tra ritorno e origine appunto. Dimostrazione e merito altissimo anche per grazia di parola antica sapientemente modulata e interrogata, al contrario piuttosto di buona parte della poesia in lingua che oggi a noi pare impanata nella celebrazione afona di se stessa.

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